Man at work
“Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stessi, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere.”
(Joseph Conrad)
“A volte, per costruire un mondo migliore occorre distruggere quello vecchio, e questo crea nemici.”
(Dal film Capitan America)
“A working class hero is something to be
If you want to be a hero, well, just follow me”
(John Lennon, “Working class hero”)
Umberto Saba, poeta e scrittore dei primi del ‘900, diceva che il meglio del vivere risiede in un lavoro che piace e in un amore felice. Cosa piuttosto semplice da verificare, da ognuno di noi, in qualsiasi situazione ci si trovi: e cioè, sia in positivo – nel caso in cui abbiate entrambe le cose – che in negativo, laddove almeno una delle due (o piuttosto, entrambe) non vi appartengano. Molti ritengono che le due questioni si possano fondere, e arrivano all’assunto che amare il proprio lavoro possa rendere altrettanto felici; assunto che, per assurdo, potrebbe non essere così sbagliato come si può essere immediatamente portati a pensare. Almeno, non completamente.
Perché per quel tipo di persone, risolversi e definirsi nel proprio lavoro è la cosa essenziale: senza, si sentirebbero persi, svuotati, quasi privi di identità. Nel loro lavoro, invece, riescono ad avere una personalità, uno scopo, una definizione, senza doverci (scusate il gioco di parole) “lavorare sopra”. C’è stato un periodo in cui, anche se lo negavo, pure io ero portato a pensare una cosa del genere: ma, parimenti, parte di me non era d’accordo con questa teoria. C’era qualcosa di evidentemente errato, e il mio ‘Super io’, col suo modo molto discreto di fare, cercava comunque di dirmelo.
Fino a quando ho dovuto scontrarmi con l’evidenza che non poteva risolversi tutto nell’equivalenza ‘Io=MioLavoro’, in un periodo piuttosto lungo e complicato. A quel punto ho dovuto tirarmi su le maniche e iniziare davvero a lavorare: ma su me stesso, sulla costruzione di un nuovo “io”, di una nuova equazione. Non è stato facile: ho dovuto davvero ‘sporcarmi le mani”, adoperare tutti gli attrezzi a mia disposizione, comprarne addirittura di nuovi e – con fatica – imparare ad utilizzarli.
E ho scoperto che c’è qualcosa di molto confortante nell’adoperarsi per costruire qualcosa con le proprie mani, riempiendole di piccole ferite e di macchie da lavoro (e che sia un nuovo scaffale per libri e dischi, o una nuova struttura psicofisica per sé stessi poco importa): il risultato che ottieni è davvero solo ‘tuo’, è qualcosa di reale e tangibile che rimane, e la fatica e l’impegno che hai impiegato – che ritrovi in quelle piccole ferite e in quelle indelebili macchie sulle tue mani – nessuno te lo potrà mai rubare, né negare.
Come un trofeo, o un riconoscimento da “eroe della classe lavoratrice”: ma molto, molto più scintillante e prezioso.