Le luci della città trent’anni dopo
Il 16 ottobre 1989 era il giorno dopo il mio ventitreesimo compleanno.
Ero ancora infilato nei meandri degli studi universitari, non frequentavo più le lezioni, andavo a Ca’ Foscari a Venezia soltanto per gli esami o in qualche particolare occasione per necessità burocratico organizzative.
Le mie giornate in gran parte si svolgevano in casa, chiuso nella mia stanza tra appunti, libri sottolineati oltre le possibilità di sopportazione della carta sottostante, schemi mnemonici e musica.
Ho sempre studiato con la musica accesa sin dai tempi delle superiori. Anche di fronte alle blande obiezioni dei miei non vedevo incompatibilità tra l’attività di apprendimento e l’ascolto sebbene, giocoforza, distratto.
Ero venuto fuori dalla mia prima storia sentimentale all’inizio di quell’anno, uscivo poco, giusto qualche sera nel weekend con qualche amico. Di giorno le poche uscite, scusa per prendere una boccata d’aria, erano per raggiungere il giornalaio e vedere se era arrivato il nuovo numero di Rockerilla , Rockstar, o Metal Shock (ero nel pieno del mio trip metal) o se magari con un po’ di fortuna era arrivata quella copia di Melody Maker o NME che raggiungeva sporadicamente il mio quartiere dalle lontane lande di Albione.
Quel giorno usciva in Inghilterra un disco che non era molto vicino al mio background né ai miei interessi del momento e della cui esistenza mi sarei reso conto uno o due anni dopo, non sapevo allora che il nostro sarebbe stato un incontro fatale.
Di quel disco mi sarei innamorato follemente, di quell’amore che si può proiettare su delle canzoni che senti come colonna sonora della tua vita in un momento specifico e che da allora, per tutto il resto degli anni a venire, evocheranno alla mente, ogni qualvolta si manifestano, quella stessa tipologia di emozioni, una sorta di “correlativo oggettivo” in salsa pop.
Hats era il titolo di quel disco: “Cappelli”. Davvero ordinario e con basso appeal per un ventitreenne in balia di slogan quali: “Disintegration”, “Green”, “Nothing’s Shocking” o “Pretty hate machine”.
La band che lo aveva licenziato era di Glasgow e portava un nome che nulla aveva a che fare con le brume scozzesi: Blue Nile.
Quando giunsi all’ascolto dopo essermi deciso all’acquisto spinto da recensioni a dir poco entusiastiche ci mise pochissimo l’andamento sornione e languido della “Over the Hillside” piazzata in apertura a fare breccia nel mio cuore colpito da una freccia lanciata da cupido nelle sembianze di una voce che ancora oggi reputo tra le più belle e commoventi del mondo, quella di Paul Buchanan.
Una batteria elettronica estremamente minimale che era la quintessenza della modernità (prodotta dalla Linn impresa di Hi fi che addirittura finanziò l’esordio della band “A walk across the rooftops”) tracciava la rotaia su cui iniziava un viaggio notturno nella città. Qualsiasi città, anche la mia.
Il tessuto sonoro del disco era frutto del lavoro su sintetizzatori, pianoforte, chitarre e altre tastiere elettroniche di Robert Bell e Pj Moore ed era costruito in modo da toccare corde di romanticismo, desiderio e nostalgia in grado di esaltare al massimo la splendida vocalità soul di Buchanan, sempre molto misurato e per questo ancor più efficace nel suo modo di dare vita ai sentimenti.
Hats è pervaso da un‘atmosfera blu notte dalla prima all’ultima nota. Una notte che inizia al calar del sole quando il colore del cielo si modifica di minuto in minuto e la città si illumina una luce dopo l’altra e termina quando, dopo che il buio ha preso possesso di tutto, la città si risveglia alle sette di una mattina insonne.
È una notte urbana quella dei Blue Nile, una notte trascorsa camminando per le strade o a bordo di un taxi o della propria auto senza precisa destinazione in una metropoli o una piccola città.
Sono gli stessi titoli ad evocare questo tipo di scenario a partire da quella “The Downtown Lights” che segue l’iniziale “Over the Hillside” permettendo di immaginare il passaggio da un panorama cittadino visto dalla collina ed un seguente immergersi nella giungla delle luci con in testa e nel cuore il pensiero per quel qualcuno che si desidera languidamente.
C’è un vissuto difficile nella sua banale quotidianità che viene raccontato con voce dolente da Buchanan (“working night and day I try to get ahead, it makes no sense”), c’è il dolore per qualcuno che se ne sta andando lasciando un vuoto e una vacua speranza che qualcosa di magico possa cambiare le cose (Walk me into town, The fairy will be there To carry us away into the air), c’è il colloquio interiore tra lui che cammina per le strade che si svuotano e lei che….chissà dov’è (Tonight and every night Let’s go walking down this empty street Let’s walk in the cool evening light Wrong or right Be at my side The downtown lights). Gli archi sintetici su quei beats che sottolineano i passi e una chitarra quasi funk portano il cantato quasi a rompersi (“…i’m tried of crying on the stairs”) in un’estasi di meraviglioso languore.
Il passo a seguire è quello di un uomo che invita una donna ad uscire per la serata alla ricerca di un luogo dove, come per incantesimo, quello che non va tra di loro possa essere dimenticato (I know a place where everything’s alright), un desiderio quasi infantile ma assolutamente umano. È “Let’s Go Out Tonight” la primus inter pares di quest’opera che davvero ha pochi eguali nell’evocazione delle sensazioni di chi soffre per amore.
Il groove di bassi sintetici di “Headlights on the Parade” ci porta sulle rotaie di un tram che si aggira nella notte, tra fari e neon, mentre il protagonista esalta la forza pura dell’amore (Only love will survive Yeah, The city wins while you and I Can’t find a way, Oh, headlights on the parade).
Il cuore di tenebra del disco si ha in apertura di quello che, in un’era in cui i vinili stavano abbandonando gli scaffali, sarebbe stato il secondo lato. “From a Late Night Train” è desolata come poco altro, nessun beat, soltanto l’atmosfera notturna creata da una nebbia di synth, da un pianoforte che gocciola delusione, un suono lontano di tromba, una voce arresa oltre ogni dire che narra lo spezzarsi di ogni filo di speranza (it’s over now, I know it’s over but I cant’let go) mentre il treno si allontana in una notte di pioggia senza redenzione. Buchanan supera qui ogni vetta (dovremmo dire baratro) emozionale nel suo canto dimesso.
Oltre questo punto di pena parrebbe non esserci ritorno ma “Seven A.M.” con il suo passo insicuro e le sue pennate di chitarra permette di ritornare ad una scintilla di luce, quella dell’alba che compare tra le insegne al neon e permette di chiedersi comunque “Where is the love”?, una domanda a cui è la conclusiva “Saturday Night” a dare risposta con la sua melodia in qualche modo rasserenante, permettendo ad un cuore spezzato di riaccendersi per qualcun altro. Perchè non ci vuole poi chissà cosa: una ragazza ordinaria, con cui uscire un sabato sera, è in grado di aggiustare il mondo se dentro si accende la scintilla (Who do you love ? Who do you really love ? ……..Quarter to five When the storefronts are closed in paradise meet me outside the Cherry Light You and I walk away, An ordinary girl Will make the world alright She’ll love me all the way It’s Saturday night).
Hats si chiude su questa nota di speranza come a dire, usando un luogo comune persino abusato: “Si chiude una porta si apre un portone”.
Il viaggio nella notte romantica dei Blue Nile riesce con grande spontaneità, immediatezza e misura a toccare nel profondo parti emozionali che sono presenti in ognuno parlando di amore, nostalgia, desiderio in modo universale.
I Blue Nile daranno alla luce altri due riusciti album: il bucolico “Peace at Last” del 1996 e “High” del 2004 che ritorna alle atmosfere di “Hats” prima di sciogliersi. Da allora solo l’esordio solista di Buchanan “Mid Air” in cui soltanto il pianoforte accompagna il suo canto dolente ha interrotto il silenzio.
Quattro soli album in trentatrè anni in una carriera assimilabile per alcuni aspetti a quella dei coevi Talk Talk, artisti le cui opere uscivano soltanto quando davvero se ne sentiva l’esigenza incuranti degli interessi della discografia.
Un viaggio emotivo inimitabile e indimenticabile per chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo e di viverlo.