Tom Verlaine – Loud, Out of Tune
Sono arrivato dal Delaware a New York nel 1968. Due ore di auto, verso sud. Era una bellissima giornata di luglio creata apposta per sorprendere un viaggiatore timido. Ricordo una strada, bordata da vecchie case di mattoni con lunette a ventaglio sopra le bianche porte, balconi con graticci ricoperti di foglie e magnolie, muri nascosti da rampicanti e ricordo gatti stesi al sole delle finestre. In fondo non era poi così diverso dal Delaware. Persino gli alberi sul marciapiede stavano germogliando e qualche piccione camminava impettito lungo il canaletto di scolo fino a farsi scacciare da un veicolo che spruzzava acqua. Tenete New York Pulita, recitava il cartello. Un battesimo sporco ma amichevole.
Lavoravo in un magazzino contando piatti e asciugamani. Anche se mi facevo chiamare Verlaine in realtà non l’avevo mai frequentato. Mi piaceva solo il suono di quel nome. Quei francesi, come Verlaine o Apollinaire, li conoscevo solo perché li cantava Dylan che da un altro poeta aveva preso il titolo. Fosse per me mi sarei chiamato Frost, come Robert Frost.
Mi fermai all’angolo di un parco giochi. C’era una ragazza dal seno enorme, con un maglione verde e un selvaggio cespuglio di capelli, pantaloni neri aderenti che evidenziavano grosse cosce e un poderoso sedere. Sopraggiunse di corsa, gridando e tenendo ben strette le gambe di un giovane barbuto urlante che portava sulle spalle.
“Fammi scendere subito!”, strillava lui, agitando le braccia. Un’altra ragazza bassa e muscolosa, con una faccia da scimmia e i capelli a spazzola, li seguiva correndo e rideva fragorosamente.
“Non ti avevo detto che Shirley è la lesbica più forte del Greenwich?”.
Ero partito con Richard per i soliti motivi. La musica, ma anche la poesia, volevo coinvolgermi con gente che usasse la testa in tutte le direzioni possibili. La scena musicale allora era statica. Il Max’s Kansas City prendeva solo artisti con un contratto in mano, a Bleecker St. regnava il folk. L’unico posto dove c’era l’attività che mi interessava era il Mercer Art Center, che le New York Dolls avevano messo in piedi e dove in ogni stanza incontravi la gente più strana. Ma a me le Dolls non piacevano, né per come suonavano né per come si vestivano. Mi sembrava idiota conciarsi come una vecchia baldracca per suonare Chuck Berry. Poi un giorno il Mercer le Dolls l’hanno tirato giù. Una mattina camminavo per la Bowery e capitai di fronte a questo bar di country e bluegrass: il CBGB’s. Entrai ed era un bordello: un paio di ubriachi e un cane che cagava dappertutto. C’era un vecchio bancone che andava fino ad alcuni box oscuri con delle fioche luci collocate su dei pilastri. Alle pareti annunci di concerti, mostre estive, spettacoli off-Broadway, corsi serali di method acting, letture di poesia. Pezzi di carta con scritte a matita erano appesi alle pareti col nastro adesivo e raccoglievano proposte di baratti o annunci di vendita auto, motorini, capanne sul mare o loft. Un californiano con nostalgia di casa, fornito di patente di guida cercava un passaggio gratis fino a North Beach. Un nuovo caffè su Bleecker St. cercava personale che curasse un giornale ciclostilato di notizie sul Village. Un pittore della domenica offriva cure dentistiche in cambio di una modella.
Però aveva un ottimo impianto e chiesi al padrone, un certo Hilly, se si potesse suonare. Invitò me e Richard per un’audizione, e, non so come, gli piacemmo. Due mesi, una volta alla settimana, ma dovevamo pagarci da soli la pubblicità. Allora Richard e io decidemmo di provarci sul serio: lui aveva preso in mano il basso per la prima volta da non più di due settimane.
Conoscemmo un tale, Terry. Ci aiutò, comprandoci degli strumenti e dandoci il suo locale per provare e ci mise in contatto con un suo amico, Richard anche lui. Billy era un suo compagno d’infanzia. Cominciammo. Patti a quei tempi faceva ancora la poetessa e scriveva di musica. Pubblicò un paio di buone recensioni e la gente cominciò a venire al club.
Una sera ci chiamò un tizio, Patty, che lavorava alla Island, a Londra. C’era un tipo, disse, che voleva produrci perché se n’era appena andato dal suo gruppo e cercava nuove esperienze. Ci portarono in uno studio. Registrammo per due settimane, e, se devo essere sincero, quello che avevamo inciso non mi piaceva affatto. Glielo dissi e i loro entusiasmi si raffreddarono subito. Se ne tornarono a Londra e mettersi in contatto con loro diventò problematico. Uscivo di notte nella neve per chiamarli da una cabina e loro non richiamavano mai.
Patti ha scritto “come la scultura, il rock è il corpo solido di un sogno, è un’equazione di volontà e visione”, io avrei voluto un rock più musicale, più sincopato, con maggior spazio. Quella che chiamavo “tension and release”. Costruivo una tensione, tante tensioni che non sempre venivano risolte, a volte solo prolungate indefinitamente. E i cantati laceranti, quasi da psicodramma, almeno quanto il suono appuntito della chitarra, una vecchia Fender Jaguar, quella di una band surf.
Le luci accese intorno a Tompkins Square e la luce del giorno che scemava davano un riflesso romantico alle vecchie case, una luce caramellata che trasformava in madonne le vecchie grasse bisbetiche, che gridavano ai figli sporgendosi dalle finestre o li trascinavano per strada tra botte e ceffoni; trasformavamo in contadini gentili commercianti dispettosi e furbi in attesa sulle soglie dei loro negozi per truffare ciechi invalidi o giovani punk. Si poteva vivere tutta un’esistenza nell’East Side e restare uno sconosciuto.
Il disco poi lo facemmo. Anzi ne facemmo due. Ci siamo sciolti in una notte di luna piena, anche i Moby Grape si sciolsero così e noi non abbiamo voluto esser da meno.