Cinquanta sfumature di Rosso Cremisi
A volte certe cose ti si insinuano nella mente e non le levi più, altre volte scendono ancor più nel profondo e rimangono latenti finché qualcosa (o qualcuno) non le fa riemergere casualmente.
Nel 1969 ero un pischello che frequentava la prima elementare e la scuola (complice una maestra che aveva in uggia quei maschiacci, certamente corruttori del suo ideale scolastico e che per la prima volta la vedevano affrontare una classe mista) mi aveva messo addosso un bel po’ di insicurezze e costrizioni, mirate a contenere la mia esuberanza.
I dischi, all’epoca, non mi colpivano più di tanto: quei cosi di plastica lucida, circolari e con un grosso foro in centro, venivano regalati coi formaggini della Prealpi e avevano su ogni lato una canzone dello Zecchino d’Oro.In realtà, in casa avevamo tre valigette porta dischi piene: erano i singoli estratti dal juke box del bar che mia mamma aveva gestito per un paio d’anni, subito dopo il matrimonio e fino alla mia nascita, ma al tempo non mi interessavano granché.Non c’erano supermercati nel mio quartiere, quanto sembra assurdo oggidì, ma a metà della terza cambiammo casa e quartiere, anche se limitrofo al precedente.
Tra la nuova scuola e il nostro caseggiato vi era una piazza sulla quale si affacciava quello che da tutti nel quartiere veniva indicato, con un misto di soggezione e incertezza, il “grande magazzino Standa”.Le nostre mamme non resistevano al passaggio frequente in quel negozio così grande, ma osservavano molto e acquistavano poco, mentre noi ragazzini rimanevano a bocca aperta ad osservare scaffali pieni di macchinine e soldatini con cui non avremmo mai giocato.
Ma un giorno, negli scaffali di fronte all’ingresso, mi imbattei per la prima volta in una cesta di Long Playing.
Stavolta, a bocca aperta eravamo in due: il sottoscritto e uno strano figuro antropomorfo, colorato di rosso su sfondo blu, che sembrava fuggire da qualcosa, o più probabilmente da qualcuno verso il quale aveva paura di rivolgere completamente lo sguardo.
Il volto era trasfigurato da una smorfia che non capivo bene quanto fosse di timore e quanto di disgusto: “inquietudine” era un termine che avevo appreso (e compreso) da poco, probabilmente leggendo I Ragazzi Della Via Pal, e lo trovai perfettamente calzante.
Quell’immagine disturbò il mio sonno di quella notte, credo, perché dal giorno successivo trascorse un lungo periodo nel quale chiedevo sempre a mia mamma di entrare da un ingresso laterale, evitando così di passare davanti alla cesta dei dischi. Qualche anno dopo cominciai a frequentare i negozi di dischi, uno dei quali era a breve distanza da quella piazza ed era il più prossimo a casa.
Non ricordo cosa cercassi, ma la commessa non aveva mai sentito nominare ciò che le chiedevo già da qualche giorno e mi consigliò di provare alla Standa.
Entrai dall’ingresso principale, senza pensare all’antico timore: in prima fila, naturalmente, il faccione riccioluto che campeggiava sulla copertina di “Frampton Comes Alive!”, disco già vecchio di un annetto e che aborrivo ma che andava per la maggiore, nonostante fosse coevo al punk, ovvero il genere al quale ero convinto di essermi eternamente votato, benché le lusinghe di certo pop mi facessero intimamente dubitare.
Stavo per uscire quando la coda dell’occhio percepì qualcosa che spuntava da dietro la fila di trucioli biondi: ohibò, ma era proprio quel disco che mi aveva inquietato anni prima!
Sorrisi della mia paura di allora e, dato che non c’era altro che mi sconfinferasse, mi portai a casa “In The Court Of The Crimson King: An Observation By King Crimson”, del quale non sapevo nulla.
Giunto a casa, poggiai la testina del Pioneer sul primo lato: percepivo solo un fruscio, qualche rumore indistinto. Perplesso, alzai il volume: CACCHIO! Partì 21st Century Schizoid Man a un livello esagerato che mi fece temere per le casse.
E chi lo sapeva che partiva davvero con rumori indistinti? E chi lo sapeva che si trattava di un pezzo così devastante? E chi lo sapeva che mi ero portato inconsapevolmente a casa un disco così figo?
Hai compiuto cinquant’anni, vecchio mio: grazie di esistere.