Tom Petty – Southern Boy, American Man – Gainesville, 20/10/1950 – Santa Monica, 2/10/2017
La prima volta che ho visto Tom Petty era il 13 settembre del 1987. Indossava una camicia color magenta, una cravatta larga e colorata, un cappotto con cerniera e un gilet. La barba gli inondava il viso e i suoi capelli biondo chiaro erano perfetti. Petty era di Gainesville, Florida, qualcuno lo definiva lo Springsteen del Sud. Negli States c’è questa faccenda per cui ad un certo punto della vita ogni uomo vuole lasciare la sua casa per trasferirsi a Los Angeles, ma Petty rimase sempre estraneo alla West Coast. Era un uomo del sud che sembrava un californiano tanto quanto John Fogerty è un californiano che sembra un uomo del Sud. Ironico, agrodolce e quella voce. Sottile, con un registro acuto e nasale, come se avesse svecchiato dentro una botte di rovere. Nessun uomo bianco in America “lavorava” con il proprio setto nasale così esplicitamente come Petty, forse solo un Jack Nicholson in giornata sì. Così seducente che potevi stare a ascoltarlo per ore descrivere il quotidiano e sentirti completamente affascinato. “It was a beautiful day, the sun beat down, I had the radio on, I was drivin’”. Per qualcun altro le sue canzoni erano inondate di autocommiserazione. Quella natura del maschio americano perennemente ferito e afflitto. Perché le ferite dell’uomo sono inevitabilmente colpa di qualche donna. Perché lei lo seduce. Perché lei si fa desiderare. Perché lei lo distrugge. Perché lui sa che ormai il suo cuore è al di là del bene e del male, ma non riesce più prenderlo a calci nel culo. In realtà sono semplicemente emozioni comuni collocate sul consueto tragitto che parte dal dolore e arriva al rancore. Come in Here Comes My Girl… “tell the whole wide world to shove it!”. Un uomo può sopravvivere a lungo contando su nient’altro che il suo rancore preferito. Canzoni con una ricorrente vaghezza interna che scacciavano i suoi antieroi lontano dal cuore infranto delle cose e via “Into the Great Wide Open”. Creando così il grande affresco americano quello del misterioso viaggiatore di Running Down a Dream (“It was always cold, no sunshine“). O della ragazza di American Girl che vive di promesse insoddisfatte, “There was a little more to life somewhere else” che non esistono più “God, it’s so painful when something that’s so close is still so far out of reach”. E ricordo il suo sorriso contagioso e strafottente. Ricco di contrasti e smorfie. “I feel like a forgotten man,” “I feel like a four-letter word… no lust, no rage, no wicked thoughts, just pain, that lingers on”, …nessun pensiero malvagio, solo dolore, che resta fermo e immobile. Non c’è niente che tu possa fare per combattere contro coloro che vogliono quello che tu hai. La musica era diventata un significante culturale. Canzoni arrabbiate che lo rendevano una sorta di bardo occidentale del risentimento bianco. Era quella cosa. Era un ragazzo che aveva combattuto la sua casa discografica. Che aveva fatto dichiarazioni pubbliche sulla libertà di espressione, sui diritti degli artisti. Sapevo che la sua casa era stata bruciata. All’età di cinque anni, il padre, come scrive il suo biografo Warren Zanes, lo picchiava così forte da sollevargli di dosso i pidocchi. Quell’infanzia violenta mai superata. “Ha i vetri oscurati sull’anima”, racconta Zanes.C’era stata l’eroina. Niente di tutto questo sarebbe sorprendente. Alla fine, Petty era un artista, un uomo mai pienamente sé stesso se non quando si trovava su un palco. Dal giorno nel quale scambiò la sua fionda per una manciata di 45 giri di Elvis. Provo a mettere su per l’ennesima volta Breakdown. L’attacco di chitarra, quel primo verso: “It’s alright if you love me/It’s alright if you don’t/I’m not afraid of you runnin’ away honey/I get the feeling you won’t“.Petty non ha reinventato nulla. Ma un ascolto più ravvicinato mi rivela un’impressionante quantità di stili. C’è lo storytelling di Warren Zevon in Into the Great Wide Open. Ci sono le ballate come Southern Accents e Wildflowers. C’è il tocco di synth di You Got Lucky, la new wave di Don’t Come Around Here No More e il garage rock di I Need To Know e Running Down a Dream. E i brani dimenticati come la dolorosa e raffinata Room at the Top. La sua fedeltà al rock come forma d’arte parla da sola.
Quando diventò membro dei Travelling Wilburys, con Harrison, Lynne, Orbison e Dylan, l’idea era quella di risollevare la carriera di Orbison. Quando quest’ultimo morì inaspettatamente nel 1988, fu il primo musicista dopo Elvis a andarsene con due album in classifica: “Traveling Wilburys Vol. 1” e “Mystery Girl”. Dopo la morte di Kurt Cobain, una delle prime apparizioni pubbliche di Dave Grohl fu al Saturday Night Live con gli Heartbreakers. Un momento simbolico. Gli Heartbreakers erano forse l’unica band americana che potesse accomunare generazioni così diverse. I Replacements sono spesso citati come il più grande what if? della storia del rock. Ebbene nella biografia “Trouble Boys” Bob Mehr racconta a lungo degli inutili sforzi di Petty per convincere il gruppo di Paul Westerberg ad aprire i suoi concerti.
C.S. Lewis e Aldous Huxley sono morti lo stesso giorno dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Absit iniuria verbis, ma Petty morì sulla scia di una delle peggiori sparatorie di massa nella storia degli Stati Uniti. L’America (e non solo) oggi è in lutto per diverse ragioni. Tutti noi non possiamo permetterci di dimenticare i nostri Tom Petty.