“You look like a city But you fel like a religion To me” – New York Tendaberry
“You look like a city
But you fel like a religion
To me”
– New York Tendaberry (dall’album omonimo, pubblicato il 24 settembre 1969)
Avere vent’anni nel 1969 doveva essere una gran figata. A meno che tu non fossi il protagonista di Fortunate Son, canzone tratta da “Willie And The Poor Boys” dei Creedence Clearwater Revival, loro terzo lp in quell’anno, e narrante l’assurdità del macello vietnamita da un punto di vista che stava a metà tra le categorie blue collar e redneck, e proprio per quello molto più efficace di certe tirate pacifiste d’accatto.
E dunque: un anno in cui, nell’arco di una sola settimana, se ne uscivano due gioielli come l’omonimo (e secondo) album di un gruppo così gruppo da farsi chiamare semplicemente The Band, e “New York Tendaberry”, terza fatica di una cantautrice italoamericana di nome Laura e che aveva mutato il cognome, Nigro, in un non meno esotico Nyro.
A scorrere le classifiche del tempo, c’è di che patire una sorta di sindrome di Stendhal: praticamente ogni mese uscivano capolavori, molti dei quali sarebbero stati premiati dalle classifiche, ove facevano capolino (e spesso bella mostra) anche i brani di Laura. I suoi brani, ma non lei: come in altri casi illustri (vedi alla voce Harry Nilsson, per esempio), le sue canzoni avevano successo nelle versioni altrui, mentre lei avrebbe raggiunto commercialmente il massimo con un album di cover cointestato alle Labelle, e parliamo di successo relativo.
Figlia di un jazzista e di un’impiegata, cresciuta in un ambiente famigliare tipicamente ebreo-newyorkese ed educata allo studio del pianoforte, la ragazza aveva assorbito tutte le influenze alle quali era stata esposta in una città così cosmopolita e culturalmente all’avanguardia, maturando l’idea di far convergere nella sua musica la poetica folkie di Bob Dylan, il jazz (ancora, e per un attimo, privo del trattino che lo univa al termine “rock”) di Miles Davis e quello di John Coltrane, le suggestioni del Brill Building, l’eccitante novità del soul e dei gruppi vocali femminili. Tutte cose che, dopo un ottimo esordio, renderanno il suo secondo album, “Eli And The Thirteenth Confession”, un luminoso esempio di cantautorato al femminile sulla East Coast, opposto allo strapotere californiano nel settore.
Ma in quel 1969, visto il successo di canzoni divenute hit nelle mani di Blood Sweat & Tears (And When I Die), The Fifth Dimension (addirittura tre: Wedding Bell Blues, Stoned Soul Picnic e Sweet Blindness), Barbra Streisand (Stoney End), Three Dog Night (Eli’s Comin’), la nostra giovane e caparbia artista riprende a seguire la destrutturazione musicale operata da Davis. Il risultato sarà questa ode a una città e ad ²un cocktail (alla fragola & zenzero) bevuto sui tetti di New York nelle giornate grigie, o nelle notti solitarie: una New York in bianco e nero, o comunque autunnale, malinconica, come quella raccontata da Woody Allen nei suoi film (“Prendi i soldi e scappa”, suo primo, vero successo: di che anno sarà, secondo voi?).
Un album più ostico, più “nascosto”, meno immediato nello svelare la sua natura rispetto ai predecessori, ma impreziosito da orchestrazioni (di Jimmie Haskell) in tema, avvolto in una cover la cui foto (stupenda) presenta l’atmosfera che si ascolterà nei solchi. Laura, innamorata del lavoro svolto nei dischi di Simon & Garfunkel, chiede e ottiene la co produzione di Roy Halee e lui la ripaga rendendola libera di esprimersi: l’idea è quella di registrare le canzoni svincolate dalla metrica e da cadenze ritmiche, per poi aggiungere arrangiamenti quando possibile, o qualora appaia necessario.
Ed è così che l’ultimo singolo (un soul-gospel con tanto di cori, ottoni e ritmo sostenuto, frutto di sessioni, poi abortite, risalenti all’anno precedente), intitolato Save The Country, viene riproposto in una versione di durata quasi raddoppiata, introdotta da piano e voce cui solo dopo la metà della canzone si uniscono basso, chitarra, organo, percussioni e i cori. You Don’t Love Me When I Cry, primo brano in scaletta, è una classica torch Sony d’impronta jazz, fatta di nulla se non di superba esecuzione: voce, piano, qualche sottolineatura d’arpa e di harmonium. Questa è Laura Nyro, questa è la sua rinascita (lei la vivrà così, dichiarando di essersi sentita tornare nuovamente alla vita).
La drammaticità di certi interventi d’archi, unita a un’espressività vocale che manifesta tutte le sfumature degli stati d’animo rappresentati nei testi (Captain For Dark Mornings; Tom Cat Goodby), gli sguardi ora curiosi, ora disincantati, ora spaventati sull’amata/odiata città, nella quale convivono lusso e povertà, attici sfarzosi e barboni che dormono sotto i ponti del Bronx (la title track; Gibsom Street; Mercy On Broadway).
E l’amore. L’amore sfaccettato di Time And Love (la concessione più pop del programma), con un verso che prelude al femminismo che sarà (dopo il divorzio dal padre di suo figlio, Laura sposerà la causa femminista e si unirà al movimento per i diritti degli omosessuali, momento coincidente con l’inizio della sua lunga -17 anni- relazione con la pittrice Maria Desiderio). E quello di The Man Sends Me Home, o ancora quello torbido di Captain Saint Lucifer. Ci saranno altri dischi, ci saranno momenti di stop e riprese, ci saranno sempre vendite risibili per la qualità proposta. Laura Nyro ci lasciava nel 1997, a cinquant’anni, a causa di un cancro alle ovaie come quello che si era portato via sua madre, pressappoco alla stessa età. Cinquant’anni, come quelli di un disco senza tempo.