Ride : This is not a safe place
(Wichita)
Recensire l’ultimo disco dei Ride quando li si ha poco meno che ignorati per più di venticinque anni potrebbe considerarsi una scelta infelice ove non addirittura arrogante.
Gia’, è proprio così, meglio fare subito comin’out: della nidiata di band che alla fine degli anni 80 inondò di gassose chitarre ed eteree voci l’Inghilterra in piena contrapposizione agli squillanti groove provenienti da Madchester, i Ride non erano tra i miei preferiti. Eppure erano tenuti in palmo di mano da critica e pubblico, considerati tra le punte di diamante del cosiddetto “Shoegaze“ e della “the scene that celebrates itself” (definizione coniata da Steve Sutherland di Melody Maker ad indicare una scena priva di competizione tra i membri) subito alle spalle dei prime movers My Bloody Valentine e Jesus & the mary chain.
Vai a capire il perché un disco come il loro esordio “Nowhere” unanimemente considerato tra i capisaldi del genere non riuscì a far breccia su di me. Ci provai alcune volte senza riuscire ad innamorarmene il che lasciò il mio rapporto con la band in un limbo mai più risolto mentre la stessa era in vita ne’ tantomeno dopo nei lunghi anni successivi allo scioglimento.
Quindi rimasi di sasso quando il primo ascolto di Weather Diaries l’album che ne sanciva il rientro discografico nel 2017, ben 21 anni dopo il recedente Tarantula, mi diede quella scossa che avevo cercato invano allora, aiutandomi a recuperare, finalmente, anche i precedenti episodi.
E’ un disco riuscitissimo Weather Diaries, evidentemente frutto di un lungo periodo di incubazione – la band del resto si era ricostituita addirittura tre anni prima e ripreso subito a girare in tour-, un’opera costituita da brani brillanti a livello di scrittura e di arrangiamento che non hanno alcuna difficoltà a convincere e a farsi ricordare.
Un album che, affiancato al contemporaneo splendido ritorno degli Slowdive, contribuiva a riportare sulle scene due band coeve che evidentemente avevano ancora molto da dire.
La verifica live cui abbiamo assistito in chiusura di una serata memorabile al Todays Festival un mese fa ha peraltro confermato le aspettative, regalando un ensemble in stato di grazia in grado di non sfigurare neppure di fronte agli stupefacenti Spiritualized che ne precedevano il set.
Due anni dopo eccoci qui con il seguito: “This is not a safe place” la cui copertina raffigura una mano rivolta verso un minaccioso mare nero su un fondo di cielo verde acido.
Chissà a quale luogo si riferiscono i Ride definendolo insicuro. Di questi tempi la prima cosa che un siffatto titolo evoca è un riferimento a questo pianeta sempre più assediato da un clima in fase di rapido deterioramento, tuttavia la risposta potrebbe essere molto più intima e riferirsi altresì a qualche luogo dell’anima. I testi, orientati su un versante non certo solare, restano ambivalenti il che permette entrambe le letture.
Complessivamente l’album non delude restando molto ispirato per gran parte della sua durata, tuttavia il miracolo di Weather diaries non si ripete appieno, qualche passaggio infatti non gira come si vorrebbe interrompendo un flusso altrimenti molto convincente.
Purtroppo i brani più deboli sono proprio all’inizio del programma. L’intro “R.I.D.E” spara in faccia all’ascoltatore un suono molto aggressivo che si ripete incessante per tre minuti senza sfociare in alcun tipo di soluzione in qualche modo interessante. Ok, dici tra te e te, in fondo e’ solo un intro praticamente strumentale chiudiamo un occhio e procediamo. Le cose si sistemano subito con “Future Love” poggiata su un riff scintillante che restituisce i Ride a quello che sanno fare meglio, disegnare quelle traiettorie tra sogno e nostalgia teorizzate in primis dai Cure e da loro rese con grande convinzione ed efficacia.
Peccato che il secondo passo falso sia quello immediatamente successivo. Con “Repetition” provano ad andare ancora fuori dal loro territorio e restano impantanati in un suono robotico al servizio di un brano che non riesce a lasciare segno di sè. Vagamente meglio vanno le cose con “Kill Switch” che segue a ruota mantenendosi a cavalcioni di un suono potente e minaccioso e di un riff heavy come mai era avvenuto prima nel loro percorso ma che ancora vede latitare la zampata pienamente (con)vincente.
E’ con “Clouds of Sant Marie” che finalmente torna…. ehm il sole affacciandosi attraverso appunto le nuvole. Un cantato estremamente catchy guida tutto il brano su binari evidentemente congeniali ad Andy Bell e compagni aprendosi su un refrain che ti si incolla in testa per non staccarsi più.
E’ solo l’inizio di una serie di canzoni in grado di toccare tutte le sfumature emozionali rientranti nello spettro tra il desiderio e la malinconia.
“Eternal Recurrence” torna alle origini immergendosi tra nebbie dreamgaze per poi passare la mano ad una muscolare “Fifteen Minutes” in cui chitarre robuste vengono ingentilite da intriganti vocalizzi pop. Subito dopo si impone Jump Jet uno degli highlight del disco, cinque minuti di cavalcata memorabile che specie dal vivo, come abbiamo toccato con mano al Todays, non fa alcun prigioniero.
Si entra nell’ultimo terzo del disco, quello in cui la band tira fuori anche le chitarre acustiche e spinge l’acceleratore sull’emozione. “Dial up” ballad vagamente psichedelica si scioglie in “End game” crepuscolare e misteriosa. Tuttavia I pezzi da novanta i Ride li riservano alla conclusione del disco.
“Shadows behind the sun” ballad di eccelsa scrittura adagiata su un arrangiamento molto riuscito riporta alla mente pagine del Weller di Wild Wood. Non proprio l’ultimo arrivato.
La chiusura è affidata alla sublime “In this Room”, otto minuti e quaranta di pura estasi sonora che sta a questo album come “Weather diaries” stava all’album omonimo. Sostanzialmente è lì per colpirti direttamente al cuore e lasciare una traccia indelebile di sé.
“This is not a safe place to be, you didn’t think it was when you lined up to sign your name” (non e’ un posto sicuro questo, non pensavi fosse così quando ti sei messo in lista) recita sconsolato il refrain mentre le chitarre di Bell e Gardener ricamano argentei tessuti evanescenti che restano in sospeso nell’aria soli per una manciata di secondi in attesa della toccante ripresa di basso e batteria che li seguiranno fino all’ultimo saluto guardandoli volare lontano.
L’ album iniziato in modo interlocutorio si chiude quindi nel migliore dei modi lasciando sul palato un sapore molto gradevole, un senso di soddisfatto appagamento, e un desiderio di riassaggiarlo al più presto
I Ride, ormai dati per definitivamente dispersi, sono tornati a riprendersi un posto d’onore in un panorama musicale completamente cambiato da quando mossero i primi passi ed è bello riscontrare che , al contrario di quanto avvenuto con la memorabile frangia di Mark Gardener che ha lasciato spazio ad una boccia ormai lucida, il passare del tempo non ha tolto un’oncia di forza alla loro musica. Non è cosa da poco
Ride on!