Libertà per Iggy Pop
“Questo è un album dove altri artisti parlano per me, ma io presto la mia voce… Alla fine del tour di Post Pop Depression, ero sicuro di essermi liberato dal problema di insicurezza cronica che mi ha perseguitato per troppo tempo. Ma mi sono anche sentito esausto. E ho sentito di volermi mettere in ombra, girare le spalle e andarmene via. Volevo essere libero. So che è un’illusione, e che la libertà è solo qualcosa che senti tu, ma ho vissuto la mia vita fino ad ora con la convinzione che quella sensazione è tutto ciò che vale la pena inseguire; tutto ciò di cui hai bisogno – non per forza felicità e amore, ma la sensazione di essere liberi”
Strano sia proprio Iggy Pop a fare esplicita richiesta di voler essere libero, lui che in tutta la carriera ha sempre fatto ciò che gli è piaciuto di più, fregandosene di mode e momenti storici. Punk prima di tutti i punk, crooner quando gli altri facevano rumore, animale notturno nel periodo berlinese, metallaro per un album e sofisticato autore pop in quello successivo. Da sempre sfuggente ad ogni regola e tentativi di catalogazione, ha sempre mostrato grande credibilità in ogni sua incarnazione, abituato da sempre a prestare la sua voce a collaborazioni a progetti apparentemente inusuali, da Sakamoto, agli Underworld fino a Deborah Harry e a Sparklehorse. In questo nuovo “Free”, descritto da lui stesso come un album che “gli è capitato per caso” si è lasciato coinvolgere dalla chitarrista e disegnatrice di paesaggi sonori Sarah Lipstate e dal trombettista Leron Thomas che sono anche i due principali autori dei brani, coadiuvati da altri interessanti musicisti.
Se si esclude la breve e introduttiva Free, questo nuovo album sembra prendere le mosse dal precedente e notevole “Post Pop Depression” prodotto due anni fa da Josh Homme, come dimostrano il notevole crescendo di Loves Missing e il radiofonico singolo James Bond, ma è un’illusione: nella sua pregevole brevità, poco più di trenta incredibili minuti, convivono molti degli stili per i quali James Osterberg è diventato famoso e il disco sembra non voler possedere una propria linea guida ma perseguire la volontà di spaziare ampiamente tra gli stili. La scaletta ha un andamento strambo e altalenante, accanto ai pezzi sopra descritti sono affiancati brani che vanno nelle direzioni più disparate, in Dirty Sanchez (straordinario il suo arrangiamento di fiati) sembra di ascoltare dei Calexico strafatti di peyote poi, su un versante diametralmente opposto, c’è Glow in the Dark, caratterizzata da una perfetta voce da crooner e definita da un tappeto sonoro che mischia drumming alla Jaki Liebezeit e a una tromba che riecheggia quella di Mark Isham, che viene poi affiancata alla sofisticata Rage.
E poi ci sono tre vertici assoluti, due di essi sono in forma di spoken word e chiudono il disco.
The Down è ammantata dalla stessa oscurità che avvolgeva “Jesus Alone” di Nick Cave, ne possiede le identiche pulsioni e Iggy sfodera il suo timbro vocale più greve e drammatico.
We Are The People è una poesia inedita regalatagli da Laurie Anderson che Lou Reed scrisse nel 1970: il testo neanche a dirlo è bellissimo e la tromba e un pianoforte ricordano l’intimo e notturno romanticismo di “Meeting Across the River”, il pezzo di Springsteen che in “Born To Run” introduceva “Jungleland”.
E poi c’è lei: Sonali. La superba produzione del bassista francese Kenny Ruby eleva il brano a capolavoro fatto di spazzole sincopate, soundscapes e chitarre in leggero tapping. Una tromba va a sovrapporsi alla voce del cantante e si libra leggera nel suo armonioso assolo, a quel punto il respiro ci viene a mancare e si crea un senso di vertigine che si protrae ben oltre la fine della canzone. Il Bowie berlinese e quello di “Blackstar” sono fusi insieme, un sentito omaggio all’indimenticabile amico, un gesto d’amore fraterno che il tempo non potrà mai scalfire.