I Pixies finalmente ritornano al loro “nido d’aquila” – Beneath the Eyrie
Ben prima di parlare del nuovo album dei Pixies, e comunque prima di qualsiasi commento in merito (per quanto banale o erudito possa essere), tocca a mio parere fare una piccola premessa sulla loro storia e sulla genesi del loro stile. Che non si basava su consonanze ed erudite digressioni liriche, ma piuttosto sulle dissonanze e imperfezioni. In natura la perfezione non è la condizione migliore, la vocazione a cui tende silente ogni elemento. I gas rari, numericamente e strutturalmente perfetti , sono ad esempio gli elementi più instabili conosciuti. È l’Entropia la condizione migliore. E musica entropica, non dodecafonica bensì complessa, è quella in cui a volte ci sentiamo maggiormente sicuri. Ispirati. Collocati confortevolmente.
Ad esempio, per Manuel Agnelli, leader degli Afterhours – a cui si può certo rimproverare di non essere coerentissimo rispetto ai suoi strali passati contro televisioni e jet set, ma non certo di non essere un raffinato conoscitore di musica e di rock – i Pixies furono importanti per ciò che riportarono in auge: “Più che imparare da loro, nei Pixies ho ritrovato delle cose che già mi piacevano, per esempio nei Velvet Underground, per esempio il gusto per la melodia e per il rumore nello stesso pezzo. Mi piacevano tantissimo le dissonanze, il mettere sempre una nota sghemba, il giocare con il rumore come partitura, non tanto per fare casino. E poi le loro batterie e i loro bassi erano impressionanti tanto quanto le chitarre”.
Lo devo ammettere: iniziai ad ascoltare i Pixies perché erano tra i riferimenti più importanti di gruppi come i Nirvana, MudHoney e di parecchi gruppi della grunge generation. Furono anticipatori di un periodo e di una generazione a loro conseguente, espressione di uno Zeitgeist che non era quello a loro contemporaneo, ma successivo.
E per saper cogliere il futuro, di certo, devi essere un po’ geniale o un po’ visionario. O – come nel loro caso – un po’ di entrambi. Furono precursori, come sostenuto dal nostro giudice Manuel: “la strofa vuota e il ritornello esplosivo l’hanno fatto loro prima dei Nirvana e forse anche meglio. Solo che Frank Black non aveva il fisico di Kurt Cobain… Ma è ancora vivo e può fare musica”. Quindi, riscopritori, catalizzatori e, sostanzialmente, anticipatori di un’epoca con ben 7 anni d’anticipo sulla grunge generation. Su “Beneath The Eyrie”, lo devo ammettere, avevo parecchi dubbi e timori, prima della sua recentissima uscita; i due album post-Kimdeal (si, si scrive così, come se fosse una periodizzazione temporale simile a quella AvantiCristo-DopoCristo) non erano certo stati eccezionali: e anzi avevano instillato il dubbio, in tutti i vecchi fan e in parecchi degli estimatori della prima ora, che l’esperienza musicalmente illuminante dei cari vecchi Joey Santiago e David Lovering, capitanati dal geniaccio anti-icona sexy Francis Black, fosse stata declassata a semplice riflesso di una luce ormai passata. Invece ad un primo ascolto (ma pure ad un secondo e ad un terzo) mi tocca ammettere che finalmente quella fulgida luce che aveva indicato il cammino ad una intera generazione di musicisti e band dislocate in una generazione successiva alla loro, in “Beneath The Eyrie” si riesce nuovamente a scorgere.
Certo, non me la sento di entrare nel novero di quei commentatori (ed estimatori dei nostri cari amici bostoniani, così come in effetti mi ritengo) che si proclamano convinti del fatto che questo album possa essere affiancato a lavori quali Doolittle o Bossanova (quelli si autentici diamanti, precorritori di un’epoca) o – al meno – ritenuto di poco inferiore. Secondo il mio modestissimo parere, si continua a percepire la mancanza di una parte di anima (quella di Kim Deal, giusto per dargli un nome) che aveva un certo peso specifico nel sound della loro musica; ma è altrettanto vero che è impossibile non percepire – fin dal primo ascolto – l’oscuro fascino che graffia la pelle, che costituisce l’essenza e la musicalità ad esempio di brani come “On Graveyard Hill” oppure “This is my fate”, e la ritmata rabbia così 90’s style che permea ad esempio “St. Nazaire”. Il tutto condito da quel certo gusto ironico di un Francis Black – tocca ammetterlo – in grande spolvero e da tempo mai più così musicalmente sexy. Pertanto nessuno si scandalizzerà nel leggere che “Beneath The Eyrie” può a buon titolo – e con giusto merito – venir inserito negli scaffali musicali dei loro vecchi e nuovi estimatori, tra quelle patinate copertine dal gusto vintage e dal sapore geometrico a cui ci avevano abituati: detto più esplicitamente, può tranquillamente sistemarsi tra “Surfer rosa” e “Trompe le monde”. Non saranno certo ancora quegli eccellenti riscopritori e anticipatori di un genere, che avevamo imparato ad amare negli anni 80 e 90; ma di certo, i Pixies hanno ricominciato a macinare musica di livello. E adesso sì che è chiaro di “dove sia la loro mente”. Nuovamente rivolta alla musica e al rock.