“i,i” Bon Iver: Un’operazione a cuore aperto
Con (i) Bon Iver non è mai stato facile.
A partire da quell’articolo da mettere davanti al nome. Ci va o non ci va ? E’ un gruppo o un artista solista ?
Alla fine personalmente mi sono orientato verso l’ipotesi solista e ho finito per non usarlo mai quell’articolo. Justin Vernon sembra essere qualcosa in più di un mero leader di una band, o forse è l’assoluta anonima “trasparenza” degli altri musicisti che lo accompagnano a farlo apparire talmente centrale nel progetto da far agevolmente considerare Bon Iver un mero pseudonimo. Niente articolo dunque, però se poi vado a leggere gli autori dei brani negli ultimi dischi la firma in calce non è sempre e solo la sua, quindi….uhm….che fare ?
ok, passi, facciamo che è un gruppo ma senza articolo.
Sorpassato il nodo del nome è la musica naturalmente la vera questione, siamo qui per quella del resto.
Nel 2007 “For Emma forever ago” nel suo essere lo scarno diario sonoro di mesi trascorsi da Justin Vernon in ritiro nel Wisconsin a leccarsi le ferite e a far decantare le cicatrici di un amore spentosi amaramente era stato accolto ovunque, dai critici e dal pubblico, con una “ola” di approvazione tale da rischiare di schiacciare sotto il peso delle aspettative ogni tentativo di darvi un seguito.
Non per nulla, se si eccettua l’uscita dell’EP Blood Bank nel 2009, ci vollero addirittura 4 anni a Vernon (e compagni…) per replicare con un nuovo album, l’omonimo “Bon Iver”. Un disco molto diverso, più arrangiato e dal suono caldo e pieno ad accogliere canzoni di matrice folk dall’indiscutibile portato emotivo. In sostanza “Bon Iver” e’ una conferma del valore del progetto non solo dal punto di vista critico (Due Grammy Awards in saccoccia tra l’altro) bensì anche da quello commerciale.
Le aspettative crescono ulteriormente ed un altro lustro pieno separa “Bon Iver” da “22, A Million” il terzo disco.
E’ a questo punto che Vernon e la sua band dimostrano davvero di che pasta sono fatti. A segnarne il calibro e’ un cambiamento radicale di approccio alla canzone cantautorale affrontato con grande sicurezza come si conviene agli artisti, quelli veri, quelli che lasciano un segno.
Una coraggiosa ricerca sonora contraddistingue l’opera. Un salto quantico rispetto ai dischi precedenti comparabile, in qualche modo, all’analogo scarto affrontato da Tom Waits tra Heartattack and Vine e Swordfishtrombones.
Bon Iver non teme di risultare ostico all’ascolto e criptico nei testi e nella simbologia che adorna il disco, a partire dai titoli spesso inesplicabili; va dritto per la sua strada a rischio di perdere pezzi del suo fedele seguito “indie” .
L’utilizzo di elettronica radicale e di suoni percussivi distorti fa pensare, con il senno di poi, ai Low che, due anni dopo, avrebbero intrapreso anch’essi un totale ripensamento della propria formula sonora in “Double Negative”. Similare in entrambi i casi la scelta di sfidare il noto per l’ignoto pur di inseguire la propria visione.
L’impiego frequente ed estremo di quello strumento “del demonio” chiamato Autotune che porta a contorsioni innaturali la particolare voce di Vernon è un altro scoglio da superare per molti, compreso il sottoscritto, che faticano a riconoscere in questo puzzle sonoro volutamente scomposto e da ricomporre, pezzo a pezzo, ascolto dopo ascolto, la
morbida carezza emozionale dei primi due dischi.
Per molti il rapporto con Bon Iver termina qui. Troppo criptico il messaggio, troppi gli ostacoli nell’ascolto, in un’era in cui e’ tale la messe di uscite discografiche gratuitamente fruibili da non permettere di dedicare ad un disco di tal fatta la quantità di ascolti necessaria a sviscerarlo.
Il sottoscritto stesso dopo un plauso, più di testa che di cuore, lo aveva riposto in un cassetto virtuale senza tornarci ulteriormente sopra. Questo fino all’acquisizione dello stesso in formato fisico avvenuta quest’anno grazie ad un gradito omaggio di Maurizio Blatto di Backdoor. Rimetterci le orecchie a mente fresca e ritrovarci quelle melodie frammentate, nascoste, violentate dall’autotune, ma tuttavia seducenti nel loro toccare determinate corde del desiderio, del sogno, del ricordo, è stata una riscoperta meravigliosa, l’ideale per prepararsi alla pressochè concomitante uscita del nuovo album “i, i” un opera il cui titolo già preannuncia che si andrà in profondità, che si parte per un viaggio senza sconti dentro l’”io”.
E dentro se stessi le cose non sono lineari, non lo sono per nulla. Non c’è molto di semplice in quel segmento della realtà che sta tra la psiche e il sentimento, tra mente e cuore. Quella che poi in effetti è la nostra realtà di ogni giorno.
Quando “iMi” (io sono io ? ) parte ti rendi conto che stai entrando in un labirinto mobile le cui pareti sono ectoplasmi di suono che si affacciano improvvisamente alle orecchie e come sono comparsi tornano nel nulla.
Ti chiedi: Cosa sta accadendo ? Dove siamo ?
Quando la voce di Vernon compare è ancora una volta filtrata, attorcigliata da un autotune estremo, ha poco di umano se non un’eco del timbro che hai imparato bene a conoscere. Riparte da lì, come l’avevamo lasciata in “22 a Million”.
Una voce che pian piano emerge , evocativa come sempre , uscendo da questo tunnel oscuro per continuare a scontrarsi con questi spigoli di suono, quasi fosse una pallina che sbatte ad ogni angolo del flipper in attesa dell’incontro con te, ascoltatore, che resti in attesa; quasi fosse un feto ancora nel grembo materno che ascolta i suoni ovattati che arrivano dal mondo esterno mentre si prepara ad uscire fuori, suo malgrado, mentre si prepara ad esistere nel mondo. -“Go, go I am, I am, I am, I am”-
E’ il brano piu’ ostico del disco, c’è poco cui la memoria si riesce ad aggrappare, ed è stato posto proprio all’inizio, come ad avvertirti: “se superi questo scoglio poi il resto sarà in discesa”.
Ed e’ infatti una discesa lenta ma appagante, una discesa che si mostra all’ascoltatore ascolto dopo ascolto. “i, i” è un disco che richiede applicazione e costanza. Non arriva subito, non può.
Devi ascoltarlo tante volte come facevi da ragazzo, quando il disco che avevi acquistato il sabato con i tuoi piccoli risparmi ti doveva durare tutta la settimana se non di più e allora lo facevi girare incessantemente sul piatto.
E’ questo l’unico modo perché l’incontro tra di voi diventi di quelli da ricordare, diventi di quelli che restano.
“We” ed “Holyfields” aprono progressivi spiragli nella nebbia spessa, gli arrangiamenti sono del tutto fuori dall’ordinario, strumenti acustici come pianoforte e fiati si incrociano con parti ritmiche sintetiche e filtrate, mai scontate, mentre fantasmi di suono cristallini svolazzano qui e lì. Le voci sono tante, appaiono e scompaiono, come se ci si trovasse all’improvviso proiettati, confusi, nel rumore di una asettica sala operatoria dopo essere usciti dall’utero materno mentre qualcuno taglia il cordone ombelicale.
E’ la voce tranquillizzante di Vernon a guidarti in questo nuovo mondo frammentato in cui ti trovi proiettato. Oscilla tra quel timbro caldo cosi, vicino a quello di Peter Gabriel e quel falsetto così personale e immediatamente riconoscibile. -“The dawn is rising, the land ain’t rising, no, Catch up You wanna go the fast way?”-.
E’ al quinto brano che il disco svolta davvero e si inizia a vedere tutto più chiaramente.
“Hey Ma” una volta che l’hai ascoltata sai all’istante che non uscirà dalla tua testa, mai più. E’ limpida, aperta, chiara, emozionante, pur se poggiata ancora una volta su un arrangiamento tutt’altro che scontato. Allo stesso tempo modernissimo e fuori dal tempo costruito su un beep sonoro che si ripete costante dall’inizio alla fine.
Una delle cose migliori mai uscite dalla penna di Justin Vernon e compagni. Una delle cose che mi porterò fuori da questo 2019 e che mi accompagneranno nel resto del percorso. Un ritrovarsi in età adulta a rievocare il dialogare con la propria madre . Un emozione struggente.
– “I waited outside
Then you took me in the room
And you offered up the truth
My eyes crawling up the window to the wall
From dusk ‘til dawn”-
Il ghiaccio e’ rotto “U man like” procede dritta come un fuso, sicura di sé, cantata da voci quasi angeliche su un semplice accompagnamento di piano che svetta su onde sonore ectoplasmatiche. E dal testo emerge un bisogno di affrontare la disumanità del mondo per cercare di affermare la propria umanità – “How much caring is there of some American love When there’s lovers sleeping in our streets?”-.
E’ ancora il piano, accompagnato da fiati melanconici, a menare le danze in “Naeem” in territori sonori ormai meno impervi che ricordano il secondo album. E qui ci si ferma e ci si rende conto che quello che sentiamo è pianto, -“i can hear crying”- e’ ripetuto come un mantra, e non è dato sapere se siamo di fronte ad un pianto umano, un pianto animale o il pianto della terra che sopporta le nostre violenze quotidiane.
Arriva “Jelmore” a riportarci su terreni non tradizionali, solo un abito spezzato di suoni alieni veste i suoi enigmatici versi che tuttavia lasciano trasparire in questo deserto quasi lunare un monito chiaro:-“How long
Will you disregard the heat?”- Per quanto tempo gireremo la testa dall’altra parte ?
Da qui alla fine del disco sarà un immersione nella pura emozione, la strada si apre, le melodie si stendono davanti a te invitandoti a lasciarti cullare, i suoni si arrotondano abbandonando gli spigoli iniziali, si entra nel terreno dei sentimenti più puri e saranno soprattutto gli strumenti acustici (chitarre, fiati, leggere percussioni) ad accompagnarci fino alla fine facendo la parte del leone . Si parla di fede (Faith) di amori a meta’ (Marion) di pianto, dolore, lezioni da imparare -“So I’m gonna weep a while, You don’t even know how hard, I’ve learned a lesson, don’t ask me”- canta Vernon in Salem.
Le melodie toccano tasti dolenti nell’anima e restano sospese nella mente a lungo.
Siamo vicini al traguardo finale, Sh’dia e’ una preghiera laica -well you find the time, don’t’ you for the Lord ? Keep it rational”- avvolta in un sudario di suoni angelici mentre la voce di un sassofono in lacrime, come un bisturi viene a cercare di asportare quei nodi che ancora non ci permettono di lasciarci andare alla pura emozione.
E’ la fine, l’ultimo brano è disteso, pacifico, l’equivalente di un abbozzato sorriso, di una carezza gentile ricevuta, dell’abbraccio di chi ci è più caro.
In “Rabi” siamo noi allo specchio con noi stessi, è una presa d’atto che nel bene e nel male, conti alla mano, quella continua ricerca di pace che è nello spirito di ognuno sin da quando veniamo al mondo non sarà mai completamente soddisfatta. Eppure alla fine, forse, è possibile accontentarsi di quella parte della propria vita che funziona, quella parte piccola o grande che ti fa sentire bene, perché dentro ognuno di noi c’è sempre un qualche luogo della mente dove riusciamo a rifugiarci per essere sereni.
-So what of this release?
Some life feels good now, don’t it?
Don’t have to have a leaving plan
Nothing’s gonna ease your mind
Well it’s all fine and we’re all fine anyway-
Il viaggio dentro se stessi raccontato in “i,i” Bon Iver lo ha trasferito anche dentro di noi, è un po’ faticoso lasciarvisi andare, ma con un briciolo di dedizione e pazienza è un tesoro memorabile quello che possiamo trovare giunti alla meta.
Qualcosa da ricordare.
Qualcosa che resta.