Hurt – The man in black
(In memoria di Johnny Cash – Kingsland, 26 febbraio 1932 – Nashville, 12 settembre 2003),
“I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real…”
Il dolore è uno spartiacque, e’ un diottro sferico amplificatore di sensazioni profonde che ci fa sentire la separazione dagli altri, ma che riesce anche, con la sua lente distortrice, ad unire diverse e lontanissime generazioni separate da anni, in un continuum spazio temporale fatto di malevoli sensazioni. Perché del dolore – e nel dolore – non sentiamo solo il male, ma anche il bene – la pietas – per l’altro. Un po’ come la musica, che accomuna ed unisce al tempo stesso in cui riesce ad astrarci, a dividerci e separarci dall’altro da noi. Ad esempio da quello che non sentiamo, o che non ascoltiamo.
Di vite maledette finite troppo presto nella storia del rock ne esistono anche troppe, tante che sarebbe inutile elencarne anche solo qualcuna a titolo di esempio. Pensate a quel tal cantante che amavate tanto, scomparso in quel modo che proprio non vi aspettavate, all’improvviso, senza alcuna umana ragione apparente. Fatto? Moltiplicate quell’evento per 10, e forse non ne avrete individuati che un decimo del totale. Ma di storie di rockers quasi maledetti, che si sono ritrovati ad un passo dal baratro, ad un pelo dal finirci dentro mani e piedi, e che poi sul punto di spiccare un balzo e tuffarcisi dentro a capo fitto hanno fatto una gran giravolta salvandosi con un miracoloso colpo di reni, di questo tipo di storia forse ce ne sono un numero simile, fortunatamente elevato alla seconda. Anche in questo caso, la musica è stata compagna e inerme testimone di una discesa repentina agli inferi, e poi biografa e cantrice della lenta e difficile risalita: perché a cadere, spesso, ci vuole un attimo , e la caduta è quasi sempre vertiginosa e improvvisa.
Ma non è mai tanto dura quanto lo è la difficoltà nel risalire la china. Una cosa che Johnny Ray Cash, “The man in black”, il menestrello degli uomini che hanno sbagliato tanto, ma che ci provano fino all’ultimo a risalire quella maledetta china, lo deve avere compreso certamente bene. Una vita strana la sua, complessa, frequentemente sospesa tra quel che pare giusto fare, e quel che si vorrebbe dannatamente fare con tutta l’anima: una vita sempre in bilico, tra la caduta e la redenzione, tra l’obbligo e la voluttà. Una vita in equilibrio precario sulla “linea” la sua, cosciente che puoi anche essere un vecchio rocker, appartenente ad una generazione che anche quando suona in pubblico deve comunque in ogni caso mettersi composto, ben vestito, dritto dinanzi all’asta del microfono. Ma in ogni caso, con tutto ciò che hai dentro, la qualità, la vita vissuta; e con l’esperienza che il dolore, quello subìto, percepito e, quindi, metabolizzato, ti rende unico rispetto ai tanti. Ma contemporaneamente, simile a chiunque altro lo abbia già provato. Che sia questo un uomo ricoperto di pelli che lotta per la propria sopravvivenza in un mondo selvaggio e ostile, o che sia un Trent Reznor, nerboruto musicista e cantante nato e cresciuto in Pennsylvania più di 30 anni dopo di te, e che ha dovuto combattere la propria battaglia per la sopravvivenza contro i demoni di una esistenza normale, all’interno di in un mondo edulcorato dalla droga che, come una “corona di merda” gli brucia sulle tempie, e nelle vene. E’ solo così, solo attraverso un dolore che sottile unisce, che un vecchio signore di circa settant’anni, perennemente vestito in abito nero, può incontrare le parole di un aitante modernissimo rocker poco più che trentenne, dotato di capigliatura neopunk. E in un attimo, queste parole sono anche le sue parole, quei sentimenti sono anche suoi. Il dolore, quel pungolo che doveva essere così differente nell’altro, lo sente di nuovo in sé, vivo, così come lo dev’essere stato nella carne del suo alter ego differito. Ed è così che decide di cantare quelle parole, alla sua maniera, nel suo stile classico.
Con un solo piccolo ma significativo cambiamento: il verso in cui la “corona di merda” diventa una ben più biblica “corona di spine”. Perché ok il dolore, va bene la vicinanza, d’accordo anche la similitudine… ma se sei un “man in black” del rock anni 50 , l’etichetta va pur sempre rispettata.