I Pixies, Londra, il 1989 ed Io
I Pixies, Londra, il 1989 ed Io
(di quel che eravamo, di quel che volevamo essere, di quello che siamo e di quello che saranno)
Un ragazzino sovrappeso capriccioso e rompicoglioni,
un camionista che si fa i cazzi suoi,
uno studente di college ben compito, preciso e attento,
una commessa di fast food dal sorriso di cui innamorarsi.
In una parola i Pixies.
In più parole “la migliore band del mondo nel biennio 1988-1989”.
Non c’era niente come loro in quel momento.
A Seattle ribolliva, pronta ad esplodere, la scena Grunge, Manchester era gia’ Madchester, a Londra l’Acid Jazz era il suono del momento ma queste scene incorporavano miscelandoli tra loro elementi di generi musicali preesistenti che restavano ben visibili o meglio audibili all’orecchio.
La musica dei Pixies no.
I Pixies erano nuovi.
Era come se venissero fuori dal nulla, senza riferimenti immediati cui associarli, niente influenze riconoscibili, una freschezza e genuinita’ che ti si spalmavano nelle orecchie al primo ascolto.
Riff obliqui che pure ti si incollavano alla testa, linee di basso semplici ma mai scontate, canto tra il sardonico e l’isterico che passava attraverso tutte le sfumature in mezzo.
I Pixies erano originali. Punto.
Non erano solo personali avevano proprio il crisma dell’originalità.
Una cosa non cosi’ frequente e, oggi come oggi, qualcosa da cercare con il lumicino.
Eppure usavano chitarra basso batteria e voce come tutti gli altri. Niente di più, niente di meno
Ma non erano come gli altri. Erano di un altro pianeta.
E nessuno sarebbe stato come loro dopo, pur se più di qualcuno ci ha provato rubacchiando qualche idea qua e la (si…anche i Nirvana) cercando di riproporne vagamente la formula.
Perché l’originalità non e’ dote che si compra a prezzi modici.
Vederli dal vivo su DVD al Town & Country Club nel 1988, dopo Surfer Rosa e prima di Doolittle, mi ha rinfrescato la memoria di quello che significavano in quel momento,
quando le poll di tutte le riviste inglesi e americane, quelle che cercavo nelle edicole piu’ fornite della citta’, li mettevano lì sopra, sul podio come “la Band” che segnava la strada,
quando i musicisti che davvero contavano allora (Bowie, Bono) o che avrebbero contato dopo (Johnny Greenwood, Kurt Cobain) li tenevano in palmo di mano.
Al Town & Country di Kentish Town ci sarei andato nell’agosto dell’89 un anno dopo quel concerto e purtroppo non per vedere loro. Suonavano i “Something Happens !” una band alla quale, per contrappasso al loro nome, non e’ successo nulla.
Era la prima volta a Londra per il sottoscritto ed era eccitante proprio come chiunque può facilmente immaginare.
Tre settimane in un appartamento di Caledonian Road con un gruppo di amici, con la voglia di infilare i sensi nel maelstrom di stimoli che una delle capitali del mondo poteva offrire a dei poco piu’ che ventenni che arrivavano dalla provincia padana.
Tra cinema, club, negozi, concerti, musei, pub, arte di strada, cucine etniche, gite fuoriporta nelle città universitarie (Cambridge, Oxford) o in quelle costiere (Brighton) la scorpacciata quotidiana era inevitabile.
Ma al di la di tutto questo era l’atmosfera ad essere indescrivibile.
E i nostri vent’anni.
E i nostri desideri da realizzare.
E il nostro sentirci cittadini di un Europa che si apriva, dove le frontiere venivano smantellate, dove i muri, a partire da quello di Berlino che sarebbe caduto dopo qualche mese, erano destinati all’abbattimento.
E quindi il nostro sentirci perfettamente a nostro agio, superate le incertezze linguistiche, in un Inghilterra che era un po’ anche nostra.
Trent’anni dopo quell’idea di Londra, quell’idea di Inghilterra, quell’idea di Europa, sono fortemente crepate, pronte ad andare definitivamente in frantumi.
Trent’anni dopo abbiamo superato i cinquanta e viviamo in un mondo che ci viene detto ha i giorni contati e che e’ colpa anche nostra.
Trent’anni dopo i Pixies di Boston esistono ancora e il mese prossimo chiuderò il cerchio andandoli a vedere per la prima volta.
Anche loro sono ora tutta un’altra cosa e la brillante scossa di novità che recavano con se’ si e’ annacquata e diluita.
Ma in qualche modo resistono, aggrappati a se stessi (seppure senza la divina Kim)
Ci aggrappiamo anche noi a quello che eravamo o forse a quello che ricordiamo, magari ci illudiamo, di essere stati.
Facciamo con quello che abbiamo in questo 2019.
Ci auguriamo che anche i nostri figli provino, profonde, emozioni, analoghe a quelle che ci riempirono il cuore allora, che vivano anche loro passioni gigantesche, che realizzino i loro sogni, che abbiano più coscienza sociale ed ambientale di quella che abbiamo avuto noi, che superino le diffidenze e riaprano cancelli che si stanno chiudendo.
Ci auguriamo che possano essere una prolunga emotiva a quello che siamo stati e che siano, in qualche modo, quello che avremmo voluto essere.
Sapendo in cuor nostro che non abbiamo lasciato loro il mondo migliore possibile.
(A Gennaio porterò mia figlia a Londra per la prima volta da quando e’ cosciente.
Sempre che ci facciano entrare.
E la sua eccitazione è la mia di allora)
Hey Paul, hey Paul, hey Paul
Let’s have a ball
Gigantic, gigantic, gigantic
A big, big love
Gigantic, gigantic, gigantic
A big, big love