Guardami negli occhi. Il rito tribale di Nada a Venaus: lo spirito e la carne
Guardami negli occhi, ti sembro sempre quella che vuole ad ogni costo la felicità?
Sì, sembri sempre quella, Nada. Non so se davvero lo sei, se davvero lo pensi, se davvero la cerchi in quel modo disperato, come l’amore dell’angelo caduto dal cielo. Ma non importa, nel senso che sono affari tuoi, non mi intrometterei mai, così come non ho insistito quando mi hai detto che preferivi non farti fotografare dopo il concerto perché avevi un asciugamano a mo’ di turbante in testa dopo la doccia. Doccia lunga e intensa, e probabilmente indispensabile, perché reggere e gestire tutta quella forza primordiale sul palco dev’essere una fatica bestiale. Bestiale nel senso più vero, concreto e nobile che possa avere. Bestiale come i tuoi continui richiami alla forza cruda della terra, dell’acqua, dell’aria, delle montagne che l’altra sera a Venaus, nel cuore della Val Susa più radicalmente No Tav, ti circondavano con la loro spiazzante imponenza. Bestiale come la tua gestualità istintiva, quasi da nativa pellerossa, come un’aborigena di Toscana, evocata anche da quelle piume d’argento tra i capelli, che ornavano la tua testa in costante movimento come fosse sempre sul punto di esplodere. Come la musica fortissima che incredibilmente riesci sempre a far creare ai ragazzi giovani e bravi di cui ti circondi, trasmettendo loro la magia esecutiva di quello Zamboni che ti aveva aiutato a incidere uno dei live più belli e intensi della storia, diffondendo la sapienza tecnica ed emotiva che un genio come John Parish alla produzione dei tuoi dischi sa dispensare. Che a volte sul serio ti fa assomigliare a PJ Harvey, malgrado tu sia già di tuo una Patti Smith: per tonalità, gestualità, carnalità violentemente dolce, dolcemente violenta. Spezzami le ossa, non darmi tenerezza, canta lei.
C’era poca gente purtroppo, anche se tutta bella, quello che alla fine poi più conta. Certo, mi vengono in mente le stilettate amare di chi – come Gianluca Gozzi, anima del TOdays, spinto dallo sfinimento a mollare baracca e burattini – dice che se la metà dei like sui social si traducessero in presenze e sostegno effettivo alla musica di qualità, come quella proposta dal Festival itinerante Borgate dal Vivo, forse non staremmo messi così male.
È stata un’esibizione – more solito, per Nada – formidabile. Me l’ero persa per ragioni di lavoro qualche mese fa nella sontuosa Maison Musique ristrutturata a Rivoli, non avevo ancora avuto modo di ascoltare e comprare il suo ultimo disco. È un momento difficile, tesoro. Sì, lo è. Al netto del nostro panorama, ehm, politico: più penoso che difficile, quello. Anche nella sua ultima opera gli occhi sono ovunque, non solo nel titolo dell’ennesima, splendida canzone con cui ha riassunto il concerto. Un concerto dove ci ha regalato un’ode da brividi all’amore-odio per la madre; la sua e quella di tutti noi, in terra e in cielo, perché il dolore è condizione imprescindibile dell’amore, così come vivere e accettare la tristezza è indispensabile per assaporare pienamente la gioia. Quella che, appunto, Nada vuole ad ogni costo.
Ha quasi sessantasei anni. Si vede che li ha assorbiti tutti. Con le sue contraddizioni. E il suo carattere non semplice da decifrare. Nella pelle, nelle vene, nei muscoli, nell’anima. Anzi, nella Malanima. Eppure sul palco sprigiona un’energia che, ragazzine care e fighette, andate a ripassare la lezione. Solo per il come, senza un perché. Come quel suo brano di due minuti scarsi che con tre accordi e mezzo, abbinati alla semplicità scarnificante del testo, ti fa venire i peli dritti e gestire con difficoltà i lacrimoni per come sa raccontare in modo soave la disperazione. Come il suo anomalo femminismo molto maschio. Come la sua carnalità spirituale: canta e si tocca, ti tocca. Le mani, la faccia, le braccia, il ventre. Sublimi canzoni di pancia. Il sesso forte, altroché balle. Come una versione a cappella e da urlo – è proprio il caso di dirlo – di All’aria aperta. Come il suo preambolo registrato – e recitato: tutto il suo live è accompagnato da dinamiche fisiche molto forti – e diffuso dagli altoparlanti dopo il primo pezzo. Una sorta di istruzioni per l’uso sulla circolarità delle emozioni. Non a caso è pure un’ottima attrice. Ma non al punto di farsi usare come veicolo promozionale, seppur per una causa nobile, al di là della real politik e delle ragioni più o meno argomentate di ciascuno: infatti a un certo punto le allungano sotto il microfono un vessillo No Tav, lei lo vede, lo lascia lì, lo guarda, capisce, ma sceglie lei il momento per raccoglierlo e sventolarlo: a modo suo, però. Senza dispiegarlo in maniera ostentata e magari poco spontanea, trasformandosi in donnina-Michelin stile Bibendum, ma facendolo girare come fosse una bandiera indiana in guerra, mentre canta in modo selvaggio, come fosse un simbolo per darsi coraggio nella battaglia: la sostanza invece dell’apparenza, appunto.
Nada è quella che faceva successo quando si presentava a Sanremo giovinetta allo sbaraglio, accompagnata dai Rokes, da Ron, da Nicola Di Bari. Poi è quella che è stata dimenticata perché la dimensione di lolita canterina che le avevano appiccicato addosso non le bastava, anzi la faceva vomitare. Ha percorso tutte le strade, anche le più impervie, della canzone d’autore. Ha assorbito la poetica abrasiva, ironica e sferzante del suo conterraneo Piero Ciampi, mai abbastanza benedetto maudit. Si è messa a scrivere e ha accettato di cimentarsi in canzoni difficilissime, scomode, spiazzanti. Ha realizzato un paio di album da antologia della bellezza: L’amore è fortissimo il corpo no (2001), Tutto l’amore che mi manca (2004). È tornata a Sanremo per regalarci due pezzi – Guardami negli occhi, appunto, e la fantasmagorica Luna in Piena – tali da oscurare quasi l’intero panorama italiano (e non solo) di voci e interpreti femminili. Luna in Piena, già. L’avete mai ascoltata? Quando avete cinque minuti spegnete le luci, chiudete gli occhi al buio e sparatela a palla: in una stanza, in un’automobile, in mezzo a un prato. Un elevarsi progressivo al cielo, la perfezione della dissonanza più tribale. Luna in Piena è per me l’Almeno tu nell’universo di Nada. Nada che alla fine, tirando una pedata in culo a chi le dà della snob, fa felice la gente dandosi nei bis all’Amore disperato, quello del sassofono blu, e al Ma che freddo fa, quando quasi tutti si sono già messi su i golfini: la ballano anche i nonu e le none e i bimbi e le bimbe. Cos’è la vita, senza l’amore? Perché alla fine poi quello è. Un angelo caduto dal cielo, già.