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Bruce Springsteen:“Western Stars”

Diciamola tutta: con quest’uomo ci siamo cresciuti, ne abbiamo condiviso i sogni, le corse in auto, gli innamoramenti e la sbruffonaggine con “quelli della banda” del quartiere. Ecco, sì: la banda. Perché le sue canzoni raccontavano quel mondo lì, quello delle periferie urbane, l’ambiente delle backstreets, quello in cui si muovevano quei personaggi che popolavano le notti sotto i cavalcavia dal cemento scrostato e cumuli d’immondizia in attesa di essere raccolti.
I soggetti di quelle storie, piccoli ribelli che all’epoca vivevano la speranza di un riscatto, col tempo si sono trasformati in uomini disillusi, piegati da quella vita operaia o piccolo borghese dalla quale cercavano di scappare in gioventù ma con la quale son dovuti scendere a patti, e qualche tempo fa si trovavano alle spalle rapporti difficili, delusioni, divorzi e difficoltà nel pagare gli alimenti o nel trovare il tempo di far sentire ai figli la propria presenza, mentre oggi sono appagati da una situazione famigliare stabile e devono affrontare l’inizio della vecchiaia facendo bilanci da una nuova residenza , lontana dal contesto urbano e dalla quale si voltano a guardare il percorso osservandolo con occhi consapevoli , ora distaccati, ora colmi di nostalgia. Tutto questo rappresentano le canzoni che vanno a comporre il nuovo album “solista” di Bruce Springsteen. Bruce Springsteen Western Stars
Non potremmo certo utilizzare appellativi quali The Boss per descrivere cosa siano oggi l’artista e l’uomo, questo quasi settantenne che si concede racconti che narrano di cavalli selvaggi, autostoppisti, treni, terre assolate e stelle dell’ovest. Quale sia il concetto di “pop californiano anni 80” di un rocker che si è sempre trovato più a suo agio sulla East Coast rimarrà un mistero, dato che i rimandi a quel non-genere non paiono affatto evidenti, ma è probabile che il progetto sia mutato in corso d’opera. Le repliche a Broadway e la rinegoziazione del contratto devono aver dato a Bruce la giusta concentrazione e la tranquillità di poter lavorare sui suoni, facendosi guidare ancora una volta da Ron Aniello e affrancandosi da quella E Street Band che non sarebbe stata in questo caso funzionale a canzoni lontane dall’incrocio tra rock e rauco r&b che l’ha resa leggendaria (ma un nuovo disco registrato coi ragazzi dovrebbe uscire tra non molto). Un disco diurno (mai il sole era stato citato così frequentemente in un album del Nostro), inaugurato dal racconto di un vagabondo che si muove raccattando passaggi, senza una meta: Hitch Hikin’ colpisce direttamente, senza trucchi, tanto da esser priva di introduzione, con la voce nuda e cruda, molto espressiva, che sin dal primo verso ci precipita nel mondo del personaggio, mentre gli strumenti si aggiungono in serie a comporre un accompagnamento efficace ed evocativo. Bruce Springsteen Western Stars
Segue l’ammaliante The Wayfarer, tono drammatico sostenuto dagli archi per un altro racconto di un viandante che, proprio nel momento in cui pare non decollare mai, ci sorprende con un cambio di tonalità e un pieno orchestrale inatteso, elemento che caratterizzerà molti dei brani in scaletta, rendendo l’ascolto dell’album molto scorrevole e dinamico, nonostante la prevalenza di ballate. A tal proposito, la storia dell’uomo che attende la sua donna in arrivo con il Tucson Train, già a partire dal soggetto del titolo, è la versione western della classica ballata springsteeniana, così come Western Stars lo è di quel genere di canzone meditativa che abbiamo imparato ad apprezzare in “The Rising” e descrive un attore da piccole parti che una volta venne ucciso da John Wayne.
Un sussulto e un brivido lungo la schiena ce li fa provare Sleepy Joe’s Café, sorta di danza cajun che farà furore suonata con gli E Streeters nella prossima (già annuciata) tournée autunnale, e che personalmente vedremmo bene in medley con il traditional Jole Blon (a suo tempo riportato in auge dal recuperato Gary U.S. Bonds, col quale è stata spesso eseguita dal vivo anche in tempi relativamente recenti, oltre che su disco). La seconda parte del disco parte con la vita del cascatore di Drive Fast (The Stuntman), costretto a tenersi due viti nell’anca, una clavicola a pezzi e una barra d’acciaio in una gamba: ancora un personaggio cinematografico, a dimostrazione di come questo album sia in realtà un Grande Film Americano, più di ogni opera precedente del Nostro. Il quartetto d’archi che introduce Chasin’ Wild Horses, la storia di un irrequieto cowboy che vuole liberarsi dai ricordi e lavora fino a crollare dalla stanchezza per non pensare, vede l’inserimento di pagine orchestrali da grande colonna sonora che stridono con la brusca sterzata “pop” di Sundown, sinora il pezzo meno convincente del disco.
Si torna subito in ambito prettamente folk con la breve Somewhere North Of Nashville, perfetta pausa prima di affrontare i dubbi, i tradimenti, i rapporti difficili di Stones, un tripudio melodico in cui l’orchestrazione, magniloquente, non inficia la bontà della canzone, come invece accade per la successiva.Bruce Springsteen Western Stars There Goes My Miracle è il classico brano a memorizzazione istantanea che ti fa dire “cosa c’entra tutto questo con Bruce?”: si fa presto a dire Roy Orbison, uno dei miti dichiarati dello Springsteen d’inizio carriera, ma questo è un innocuo (se non disturbante) brano pop fuori tempo massimo (possibile, una pacchianeria del genere nel 2019?).
Solo che la canticchiamo già tutti, vero? Che abbia ragione lui? Segue Hello Sunshine, gran bella canzone che ha il solo difetto di risultare un tantino derivativa (sicuramente, come si legge ovunque, ricorda la versione di Harry Nilsson di Everybody’s Talkin’, ma personalmente ci sento pure Good Time Charlie’s Got The Blues di Danny O’Keefe). L’album si chiude con la meditabonda Moonlight Motel: il ricordo di una relazione e il protagonista che ripercorre la strada che un tempo faceva da sfondo alla storia, si ferma nel parcheggio del motel e si beve due sorsi, uno per lei e uno per sé.

Dopo una serie di album sottotono, quando non decisamente inutili, Springsteen torna ai livelli che gli competono con un disco che ha un senso, un nuovo capitolo di una storia iniziata mandando cartoline da Asbury Park, chiedendosi come sarebbe stato crescere in una città che non era fatta per i santi, ma che accettava gli eroi, proseguita raccontando la vita blue collar e le sue difficoltà, fino a guardare l’età adulta dal tetto del mondo, accettando le contraddizioni e schierandosi dalla parte dei reietti e riconoscendo i sacrifici, anche quelli inutili, ammettendo così l’inganno del Grande Sogno Americano, ma chiamando la propria gente a stringersi attorno alle tragedie per risorgere. Quello che era mancato, in questi anni, era un focus narrativo unico poggiato su un tappeto sonoro coerente. Questa volta ci siamo, Bruce: welcome back.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".